..continua da Coding e Robotica: una nuova didattica è possibile? I parte
Il dipinto in foto si chiama “l’imbuto di Norimberga” ed era affisso nelle scuole tedesche tra il XV ed il XVI secolo. Mi è stato mostrato dal mio caro amico Francesco Piersoft Paolicelli. Non ha bisogno di particolari spiegazioni perché rappresenta straordinariamente il nostro sistema scolastico. Una maestro benevolo, sorridente, a tratti anche rassicurante che versa con il suo sapiente imbuto, tutto il sapere e le conoscenze nella testa dell’allegro studente, poco più di un mero contenitore. Evidentemente oggi non possiamo più trattare i nostri studenti alla stregua di contenitori né considerarlo meri depositare del nostro bagaglio di conoscenze.
Penso a Carmen, una mia dolcissima alunna, che a dodici anni deve badare ai fratellini più piccoli visto che i genitori tornano tardi dal lavoro. Vuole fare l’estetista da grande, sogna un grosso salone e tanti dipendenti ed un ambiente allegro e sempre sorridente, come lei. Ora, secondo il modello attuale, io, insegnante indegno di tecnologia, devo insistere nel riempirle la testa di nozioni sulla zangola (prima o poi dovrò decidermi ad andare a vedere su wikipedia di cosa si tratta), sulle turbine a vapore e su non so quale altre diavoleria. Con quali speranze? Con quali aspettative? No, il modello “tutti professori universitari” non può più funzionare.
È che forse si è creata una spaccatura enorme tra la mia generazione e quella dei miei studenti separazione che prima non era così netta, muro divisorio dovuto alla tecnologia ed al digitale. Io, la mia generazione, i nuovi schiavi del cellulare siamo stati definiti IMMIGRATI DIGITALI, la generazione a cavallo tra il periodo in cui, uscito di casa, eri irrintracciabile e quello della connessione continua e totale, anche quando, nel chiuso del tuo sancta sanctorum (che nel mio caso coincide casualmente col bagno) tenti di scappare dal mondo per riflettere sui massimi sistemi.
E vi chiedo di provare a scoprire lo stupore incredulo negli occhi dei vostri studenti quando raccontate loro che uscivate ed andavate ad un appuntamento senza mandarvi un messaggio ogni tre minuti, che con i fidanzati ci si chiamava dalle cabine telefoniche ad orari stabiliti, che fare una ricerca costava ore di copia da amanuense sull’unica enciclopedia stampata dalla Treccani un tutta Italia, e che non si ricevevano messaggi minatori dalla mamma infuriata ad ogni microsecondo di ulteriore ritardo sull’orario di rientro stabilito.
Per loro sarà più facile credere agli unicorni.
Noi, tuttavia, nonostante invidiamo l’intimo legame dei nostri studenti con il digitale come in una rinnovata invidia poenis di Freudiana memoria, non ne siamo così irrimediabilmente schiavi. E loro? E gli studenti?
Lui è mio figlio, il mio Angelo, il mio tesoro, tutta la mia vita. Una meraviglia vero? Bene lui fa parte di quelli che comunemente sono definiti NATIVI DIGITALI 2.
Angelo ha cominciato a parlare poco prima dei quattro anni, in netto ritardo rispetto ai coetanei (la pigrizia è gene paterno), ma già a due anni tentava di ingrandire con le dita una fotografia su una rivista cartacea (distrutta poco dopo aver fallito il tentativo (caratteraccio è gene materno). La verità, tuttavia, è altra e la definizione di Prensky è troppo ottimista. Il saper usare delle determinate funzioni tecnologiche, o un device piuttosto che un altro, non rappresenta un asset valido, non rappresenta, come si direbbe oggi, una competenza digitale. Una sera a cena, il posto migliore dove discutere di qualsiasi cosa, con colleghi fraterni, nacque una variante alla definizione. In realtà ci troviamo di fronte solo a PRIMITIVI DIGITALI, travolti da una rivoluzione che non sono in grado di gestire autonomamente, ed il cerchio è chiuso.
Converrete con me che sono tutti bravi ad usare cellulari, computer, applicazioni, persino videogiochi fatti da altri, fatti per altre esigenze, esigenze non loro. E gli studenti, i nostri ragazzi rischiano, in accordo totale con quanto letto nella definizione di società liquida di Bauman, di trasformare le esigenze altrui nelle proprie e di sentirsi emarginati quando non riescono a soddisfarle. Occorre dunque trasformarli da oggetti passivi del sapere tecnologico e digitale, in soggetti pensanti ed attivi, capaci di gestire, modificare, ricreare e ripensare la tecnologia a loro disposizione a seconda delle necessità.
Mi viene in mente questo film, 2001 Odissea nello Spazio, di Stanley Kubrik. La scena è meravigliosa. Dopo secoli di immobilismo, l’apparizione del grande monolito nero spinge all’evoluzione la tribù di scimmie. Una di loro, trovato un grande osso, appartenuto probabilmente ad un vecchio estinto professore, capisce che può usarlo come mezzo, come strumento, come arma. Eccolo il suggerimento. Trasformiamo la tecnologia a nostra disposizione ed il cui linguaggio è così naturalmente compreso dagli studenti, in mezzi che li facciano evolvere fino a diventare davvero Nativi digitali. È questo il nostro interessantissimo ruolo, quello di traghettatori verso un passaggio epocale nella loro vita. Armiamoli di un motore velocissimo che consenta a tutti loro, qualunque sarà il loro futuro, da Carmen che vuole fare l’estetista a Vincenzo che vuole essere un ingegnere informatico, di correre al passo dei cambiamenti a cui assisteranno e di cui, si spera, saranno protagonisti.
Ma la scuola nello stato in cui si trova, non può affrontare questa sfida. Non possiamo permettere che, in ogni riforma, si chieda come unico cambiamento, l’aumento di standard che non rappresentano più ed in nessuna maniera, la crescita culturale e sociale dei nostri ragazzi.
Il voto, l’interrogazione, il compito in classe, la prova comune, la prova invalsi e tutte queste diavolerie, distolgono i ragazzi e gli insegnanti dal vero obiettivo, la creazione di un rapporto umano basato sul trasferimento non di conoscenze, non solo di conoscenze, ma di esperienze alla ricerca delle sviluppo di idee, di visioni, di sogni da realizzare, a cui dare un corpo. La capacità di tirare fuori da ogni studente il suo dono, la sua caratteristica migliore, il suo punto di forza che finga da centro di nucleazione della sua crescita deve essere l’imperativo categorico della nuova didattica e della nuova scuola.
È qui che nasce il significato di INNOVAZIONE. Occorre declinare nella scuola un nuovo paradigma che stravolga completamente il precedente. Occorre implementare lo sviluppo di IMMAGINAZIONE e CREATIVITÀ dove immaginazione e creatività non rappresentano l’imprevedibilità, l’anticonformismo, l’imprevedibilità rappresentata da una subcultura di nicchia in voga in gran parte degli anni settanta ed ottanta. No, per IMMAGINAZIONE si intende la capacità di elaborare idee al di là della mera percezione sensoriale della realtà e la CREATIVITÀ è il processo con il quale si sviluppano idee originali che hanno valore e che INNOVANDO prendono corpo.
Possiamo farlo? Non lo so, io nelle mie materie ci provo. Sono facilitato da quello che insegno (tecnologia per chi non lo avesse capito), dai mezzi a disposizione, e che sia il CODING, la ROOTICA, MICRO:BIT piuttosto che il LEGO MINDSTORM EV3 poco importa. Per fare quello che ho descritto basta anche la carta, la lavagna o qualsiasi mezzo capace di accendere gli occhi dei nostri ragazzi. Nelle altre? Nella scuola? È possibile questo cambio epocale?
Vi rispondo con una storia. Non so se conoscete SAM COOKE (1931-1964), forse il più grande cantante rythm and blues della storia. A parte le dicerie che vogliono abbia fatto un patto col diavolo per ottenere la voce che lo rese famoso, si distinse nella sua breve vita e con le sue canzoni, per la strenua difesa dei diritti delle minoranze nere in un’America che cominciava a ribellarsi al razzismo dilagante. Martin Luther King, Malcom X, la figura di Cassius Clay Mohammad Ali e nella musica SAM COOKE e Bob Dylan animarono quegli anni. Nel 1962 Bob Dylan scrisse una delle sue canzoni più famose, Blowing in The Wind in cui si chiedeva "how many years can some people exist, before they're allowed to be free?“ (quanti anni ancora un popole deve esistere prima di essere considerato libero?). L’anno dopo Sam Cooke scrisse una canzone meravigliosa che intitolò originariamente Fewer the you think (prima di quello che pensi), proprio in risposta al grande cantautore premio Nobel.
La canzone alla fine fu intitolata A CHANGE IS GONNA COME (il cambiamento sta arrivando https://www.youtube.com/watch?v=wEBlaMOmKV4 ), titolo ancora più suggestivo. Cosa centra con noi e con la scuola? Beh facile da raccontare. La verità è che la nascita spontanea sui social di una rete di colleghi ed amici che scambiano idee, buone pratiche con il loro carico di condivisione, di contaminazione, di scambio culturale continuo ed ininterrotto ha creato una selezione naturale di innovazione che va al di là di ogni riforma della scuola buona o cattiva che sia. Siamo finalmente noi da soli a scegliere cosa e come insegnare, a sperimentare, a promuovere e bocciare pratiche e tecniche con vantaggio indiscusso per le nostre classi ed i nostri studenti. Questa volta A CHANGE IS GONNA COME lo dico io a gran voce (non lo canto sono per rispetto al grande SAM COOKE), ed il cambiamento, il vero cambiamento di paradigma è più vicino di quello che crediate.
Chiudo la lunga chiacchierata con un’ultima cosa. Ricordate gli sguardi inquisitori dei ragazzi all’inizio di questo articolo? Beh, insegnando col cuore e con attenzione al loro futuro cambiano come nelle foto.
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