L'estate "bollente" dei docenti italiani
E' trascorso più di un anno dall’approvazione, in Senato, della legge 107 (scusate ma proprio non mi riesce di chiamarla “riforma” né “buona scuola”) e molte considerazioni son state fatte, scritte e lette.
Ma adesso, finalmente, sono in vacanza: voglio staccare un po’. Indosso il mio costume e mi sdraio sul lettino col mio bel libro. A un tratto mi accorgo che, sotto l’ombrellone accanto al mio, c’è un gruppo di quattro persone. Capirò, in un secondo momento, che sono insegnanti. Due di queste discutono, “stranamente”, di scuola: “Oh no! Anche qui, adesso!?!”.
Provo a concentrarmi e ad allontanare i cattivi pensieri ma non ci riesco, il richiamo è davvero forte. La prima insegnante, Lucia, è contentissima dell’operato del governo: “Maria, queste sono le vacanze più belle della mia vita: finalmente ho firmato un contratto a tempo indeterminato e trascorrerò un’estate in pieno relax. Adesso mi sarà possibile accendere un mutuo per acquistare casa, per comprare una nuova auto ché quel catorcio mi ha già lasciato a piedi tre volte”.
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La seconda, Maria, risponde: “Hai ragione. Ci hanno spiegato che il mercato globale richiede flessibilità ma, diciamocelo: la precarietà fa schifo; non puoi programmare nulla e non sai quando e se ti chiameranno per un’altra supplenza. E poi, lavoravi da tempo sotto casa, il posto esisteva, ogni anno era tuo, ti spettava di diritto! Anche la corte europea ha sanzionato l’Italia per l’abuso del ricorso a contratti a tempo determinato. Prima o poi avrebbero dovuto stabilizzarci, vero Antonio???”
Antonio, il terzo insegnante, è intento a risolvere, insieme a Stefano (la quarta persona), un quesito de “la settimana enigmistica”. Alza la testa, con l’aria frastornata di chi non sa di cosa si stia parlando, e risponde frettolosamente: “Sì, sì: avete ragione”, tornando subito ai suoi problemi.
“Certo”, aggiunge Lucia, “il primo luglio ho dovuto prendere servizio in una scuola di Torino. Da casa mia non è proprio una passeggiata: 850 chilometri! Ma non mi scoraggio: il Ministero certamente farà in modo di trovarmi un posto vicino casa.”
Maria, un po’ perplessa, prova a ribattere: “Lo spero per te: sei stato assunta tra gli ultimi, nella fase C e troverai la tua sede dopo molte altre persone: rischi di andare lontano da casa. Io, almeno, ho avuto la fortuna di essere assunta in fase 0! Insomma: ti rendi conto del prezzo che hai dovuto pagare?! Avrebbero dovuto stabilizzarci nelle scuole in cui eravamo, è vero Stefano???”
Stefano, insegnante entrato di ruolo a Treviso sette anni fa, dall’anno scorso è rientrato nella propria provincia e insegna in una scuola a quindici minuti di bus: “Ragazze, non vi seguo. Che ne so io delle fasi A, B, C… le uniche fasi che conosco sono quelle lunari. E poi, mi trovo bene dove insegno: magari tra qualche anno chiederò la scuola sotto casa mia, quando andrà in pensione un vecchio e caro collega”.
“Sotto casa tua??? Ma… ma… Lucia, spiegagli degli ambiti, del preside che sceglie!”
“Maria, non ti piacciono nemmeno gli ambiti ? Non sei mai contenta! Vedi Stefano, in passato si richiedeva la scuola e il paese in cui trasferirsi: se c’era posto, e avevi maturato un punteggio superiore agli altri richiedenti (grazie a una maggiore anzianità di servizio, con titoli o esigenze previste dalla normativa), vedevi soddisfatta la tua richiesta; se non c’era posto speravi nell’anno successivo. Adesso non è più così. Non richiedi più LA scuola ma l’ambito, un’area di dimensioni più o meno contenute, determinata in base al numero di alunni in essa presenti. Ecco, in questo modo saresti tornato prima da Treviso. Magari non sotto casa, ma meglio in periferia che a mille chilometri!”
“Lucia, ma come fai a parlare così?! Il punteggio è sempre alla base dei movimenti: se non ne hai a sufficienza, non entri neanche nell’ambito! Inoltre, alcuni ambiti sono molto vasti: da una parte all’altra occorrono anche due ore! E poi, una volta entrata nell’ambito potresti non avvicinarti mai a casa se il dirigente non dovesse sceglierti. E qualche dirigente potrebbe anche chiamarti a colloquio e… scoprire che sei in dolce attesa.”
Lucia, cambiando tono, risponde piccata: “Ma non dire sciocchezze, ci sono criteri ben definiti: il dirigente indica i criteri, scegliendoli da un elenco individuato dal Ministero, e chi ne ha di più potrà andare nella scuola richiesta.”
“Non mi sembra del tutto vero”, ribatte Maria, “perché il colloquio con il ds potrebbe essere dirimente! Inoltre, questo meccanismo alimenterà la corsa ai corsi a pagamento. In quale Amministrazione il dipendente si forma a spese proprie? E poi, in quale amministrazione il dipendente è trasferito in base a un titolo o compito svolto? Noi, come previsto dalla Costituzione, siamo assunti per pubblico concorso e il concorso prevedeva una laurea e una abilitazione. Tutto qui. Adesso facciamo i distinguo? Non mi sembra che sia così, ad esempio, nell’Agenzia delle Entrate: se dimostri di aver lavorato in un’area a rischio, non ottieni un trasferimento più facilmente di chi, invece, ha lavorato al centro di Bolzano. Inoltre, tra i criteri vengono elencati alcuni compiti quali la collaborazione con il ds: ma come posso aver collaborato, io, con il ds se ho cambiato sempre scuola?! Che dici, Antonio?”
“Dico che Alessandro Bartezzaghi, stavolta, ci si è messo di impegno!!!”
“Senti, Maria, non so cosa dire ma so che sono di ruolo: vuoi capirlo o no?! Vogliamo parlare del merito?! Anche questo non va bene?”. Lucia si ferma un attimo, si guarda intorno e continua: “Vogliamo chiedere ai vicini di ombrellone se, nella loro vita, hanno conosciuto un insegnante che non ha consentito al proprio figlio di imparare una materia?! Con questa bellissima legge quell’insegnante finalmente sarà allontanato e la smetterà di leggere il giornale in classe! Chiunque ha avuto un professore delle superiori che non spiegava mai; adesso PUFF e spariranno tutti”.
“Lucia, ma… il merito! Hai letto la scheda di autovalutazione? –ruolo di vicepreside, coordinatore, tutor dei neoimmessi in ruolo…- molti criteri valutano compiti assegnati dal preside, oltretutto già retribuiti con il fondo di istituto. In sostanza, è il dirigente che, individuando i propri collaboratori, decide chi premiare! E si guarda poco la didattica. Noi non siamo mai stati collaboratori o tutor eppure i genitori ci hanno sempre ringraziato. E questo chi lo valuterà e in che modo?! Sarebbe bello, e giusto, premiare chi “fa bene” ma è difficile e certamente non è questa la strada: si rischiano frizioni tra i colleghi, demotivazione. Chi sa di aver fatto sempre il proprio dovere al meglio potrebbe non essere più disposto a condividere con i propri colleghi. Insomma, il merito così partorito rischia di ritorcersi contro! O no, Stefano?”.
“Sono d’accordo: Bartezzaghi è un mostro”.
Lucia è in affanno ma non demorde: “Vuoi aver ragione tu ma la legge 107 è bella e io sono di ruolo. Parliamo del finanziamento da parte di soggetti esterni: basta con la carta igienica portata da casa; adesso sarà possibile avere LIM e wi-fi in tutte le classi. Che male c’è se qualche benefattore decide di devolvere parte dei suoi soldi per il bene della società?! Su questo non puoi dire nulla.”
Maria si oscura in volto: “Vedi Lucia, questa è la parte della legge che temo di più. La Scuola è sempre stata il luogo in cui crescere, in cui tutti erano uguali. Il luogo che consentiva a tutti di costruirsi un futuro migliore. Mio padre, contadino, sognava un futuro migliore per i propri figli però non aveva i soldi per pagare la corriera e mandarci nelle scuole di città. Questo non è stato un problema: la scuola del nostro paese ci ha formati e fatti diventare quello che siamo. Con i finanziamenti esterni, il rischio di creare scuole di serie A e scuole di serie B è elevato: dove credi che investirà la grande azienda automobilistica, in città o in paese? La mobilità sociale, ormai difficile, sarà definitivamente compromessa. Senza pensare a un altro tipo di rischio: l’eccessiva specializzazione. Se l’azienda che ti finanzia il laboratorio di meccanica produce caldaie, molto probabilmente chiederà che tu formi i ragazzi su quel tipo di caldaie. E tutti i ragazzi che, al termine del ciclo di studi, non saranno assunti da quell’azienda saranno in grado di ricollocarsi?”
“E allora, l’alternanza scuola-lavoro? La scuola parla troppo in astratto: bisogna passare da una scuola del dire a una scuola del fare!!!”
“No, Lucia, ti prego: anche lo slang no! Il punto di contatto con le aziende va cercato ma, anche qui, non bisogna sottovalutare i rischi: l’alternanza potrebbe trasformarsi in continua disponibilità di manodopera a costo zero. E, al momento, non mi sembra ci siano troppi paletti.”
“Maria, ho capito: con te non si può dialogare. Vuoi comprendere o no che sono di ruolo?! Di ruolo, capisci? A proposito, adesso devo scappare perché devo preparare il curriculum da pubblicare on line, poi devo conoscere l’ambito che mi è stato assegnato, poi devo aspettare la chiamata del dirigente per sostenere il colloquio e, infine, avere la sede. Se non sarà quella desiderata, chiederò l’assegnazione provvisoria. Insomma: in due giorni dovrò trovare casa, organizzare il trasloco e iniziare la mia vita da insegnante non più, almeno contrattualmente, precaria. Stefano… andiamo!”
“Lucia… ma non avevi detto che questa sarebbe stata un’estate in pieno relax???”
Prima che Lucia e Stefano possano alzarsi, però, interviene il vicino di ombrellone: “Professori cari, mi avete riempito la testa di chiacchiere e adesso permettetemi una riflessione. Sapete perché ve la prendete così tanto? Perché avete troppo tempo libero per pensare: 18 ore a settimana e tre mesi di ferie”.
Ecco, questo dialogo è la metafora dell’Italia: c’è chi sa, e ha punti di vista differenti, e chi non sa e nemmeno vuole sapere. Certo, non tutti hanno il tempo da dedicare allo studio delle leggi emanate dal nostro Parlamento e poi “se delego i parlamentari… ci penseranno loro a studiare al posto mio. Io devo lavorare!”. Del secondo gruppo, però, i migliori sono quelli che nulla sanno delle novità e delle potenziali criticità del mondo scolastico ma che nella scuola ci lavorano. Ecco, lo ammetto: io un po’ li invidio.
Anzi: molto.
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