Poca formazione, tagli ai fondi, aggiornamento assente. L'assistenza ai ragazzi disabili è troppo spesso lasciata alla volontà dei singoli insegnanti. Abbiamo raccolto le loro testimonianze e quelle dei genitori che ogni giorno lottano per i loro figli. E che denunciano una realtà drammatica

Persone e non numeri. È questo il vulnus su cui ruota l'intero asse scuola-disabilità, un asse che anche l'ultimo ' dl istruzione '  del Ministro Maria Chiara Carrozza, diventato legge il 7 novembre dopo l'approvazione definitiva in Senato, ha scelto di non toccare se non nel punto relativo all'assunzione a tempo indeterminato di oltre 26mila insegnanti di sostegno al fine di «dare una risposta stabile a più di 52.000 alunni oggi assistiti da insegnanti che cambiavano da un anno all'altro».

Un'iniziativa lodevole in un momento in cui il lavoro sembra un miraggio per molti, ma sicuramente insufficiente a colmare quella lacuna di formazione ed equità in cui la scuola italiana è sprofondata anno dopo anno. Nell'anno scolastico 2012/2013 gli alunni con disabilità nelle scuole statali italiane sono stati 202.314 per un totale di 101.301 insegnanti di sostegno. Secondo un'anticipazione del Miur , nell'anno scolastico appena iniziato i bambini disabili a scuola sarebbero 209.814, cioè un 3,7% in più. Aumenterebbero però, sempre secondo il Miur, anche gli insegnanti di sostegno, che per quest'anno saranno 110.216 (+8,8% rispetto all'a.s. precedente).

Il rapporto docenti/alunni è quindi, in media, di 1 a 2, un rapporto di cui dubita il Coordinamento italiano insegnanti di sostegno (Ciis) che parla, ad esempio, di insegnanti che si incaricano anche 5 o 6 alunni disabili.

Ma i numeri non bastano a capire certi fenomeni, proprio perché è di persone che stiamo parlando e non di conti da far quadrare.

L'Espresso ha raccolto alcune testimonianze di genitori e insegnanti che ogni giorno affrontano la disabilità a scuola tenendo a mente che una persona non è mai un numero. Neanche se è disabile.

Alessandra, insegnante di sostegno da 27 anni, lavora in una scuola primaria di secondo grado in Toscana: «noi abbiamo materiale umano, non un foglio bianco su cui scrivere, è una persona quella che ho davanti. Quello che si perde ragionando solo per numeri e conti da far quadrare è l'obiettivo che abbiamo, che è quello di rendere queste persone più autonome possibili».

Eppure, con 18 ore settimanali, che poi sarebbero 4,5 per ogni studente in base al rapporto 1 a 4 che è, a dispetto di quanto sostiene il Miur, quello più diffuso nelle scuole italiane, come si fa a rendere una persona autonoma? «Come insegnanti ci siamo molto ribellati al rapporto 1 a 4 – spiega Alessandra – perché con 4,5 ore a ragazzo non fai assolutamente nulla. Io ho lottato per avere un rapporto 1 a 2, indipendentemente dalla gravità della situazione, quindi adesso le mie ore settimanali sono 18 alla scuola media: ne faccio 9 in una classe e 9 in un'altra. Ma per avere 9 ore a testa abbiamo dovuto mandare la nostra preside al Provveditorato, che ci ha accordato le ore in deroga: la realtà non è quella che dipingono al Miur. È difficile lavorare così».

La questione ruota attorno ad un punto, fondamentale: «il Provveditorato – dice Alessandra - manda insegnanti in base al numero degli studenti, e non alla gravità della disabilità che hanno. Ed è molto grave, perché ci sono bambini che avrebbero bisogno di molte più ore di sostegno però il Miur ti chiede: 'quanti disabili ci sono in questa scuola? Quattro? bene, allora mandiamo due insegnanti di sostegno'. Ma la realtà è che non si dovrebbe ragionare coi numeri, ma in base alla singola persona».

Giulia ha 11 anni e frequenta una scuola elementare statale in un comune in provincia di Roma.
Giulia è affetta dalla  sindrome di Rett , ed è considerata invalida al 100%. Questo vuol dire che Giulia, da sola, non può fare assolutamente nulla.

Clara, la madre di Giulia, è uno di quei genitori che non si arrende alla burocrazia di uno Stato che ogni anno taglia i fondi per sua figlia, e per tanti altri ragazzi come lei. «Quando si parla di disabilità nella scuola – racconta Clara – non si pensa mai che si sta parlando di una persona. Si pensa ai numeri, ai tagli da fare e ai soldi da recuperare. I nostri figli sono cifre per il Ministero, sono un problema, nessuno li vede come una risorsa: qualcuno li ha addirittura definiti 'improduttivi'. Invece nessuno pensa mai a tutto il lavoro che danno questi ragazzi: ai medici, agli insegnanti, agli assistenti sociali, agli specialisti. E anche al bene che fanno in una classe: l'integrazione non è solo a vantaggio di chi è disabile, ma lo è anche per i normodotati, che sviluppano sensibilità, tolleranza e amore per il diverso che speriamo mantengano per tutta la vita».

«Un giorno – dice – ho trovato Giulia sola in classe con l'insegnante di sostegno e senza l'assistente Aec (all'autonomia e alla comunicazione, ndr), nonostante io con un ricorso al Tar avessi ottenuto un'Aec solo per lei». La Aec è un'assistenza 'ad personam' per ragazzi con disabilità estremamente alta, fornita dal comune e dalla Asl e che si affianca all'insegnante di sostegno. È, spiega Clara, «come una seconda mamma: insegna a Giulia tutto, la fa mangiare, la cambia, la fa stare in mezzo agli altri. Quando gliel'hanno tolta, per i tagli che ogni anno vengono fatti, mi è caduto il mondo addosso, per questo ho fatto ricorso al Tar. E infatti l'ho vinto, perché non era pensabile che mia figlia stesse senza la Aec».

Clara in 11 anni non si è mai arresa. «Ricordo che nel primo anno delle elementari di Giulia ho fatto una media di tre fax al giorno alla preside, sempre per il discorso del sostegno e dell'Aec. Un'altra volta, invece, hanno fatto una gita e avevo chiesto se fosse previsto pullman con la pedana e mi venne detto di no. Alla fine feci partire il pullman senza Giulia. Tornai a casa e feci il solito fax alla preside». Clara non lo fa per 'rompere le scatole': lo fa «per creare dei precedenti, perché purtroppo dopo Giulia ci saranno altri bambini e io non ci sto a lasciare le cose così. Il loro diritto deve essere tutelato. Si parla di dignità e integrazione: ma dov'è quest'integrazione? Sulla carta! Abbiamo ottenuto tante cose in questi anni ma pian piano ci stanno togliendo tutto. Io devo poter andare al lavoro e sapere che mia figlia sta bene, che non è parcheggiata, io non la voglio parcheggiare, perché nel caso la lascio a casa».

Ma c'è un'altra questione centrale, ed è quella della formazione degli insegnanti.

Racconta Clara: «quest'anno mi sono trovata con un'insegnante che non sa proprio cosa fare. Giulia ha bisogno di un docente che conosca la 'comunicazione aumentativa', una tecnica specifica che aiuta a capire quello che lei vorrebbe dire senza riuscirci. Invece con la storia della graduatoria unica introdotta dalla riforma Gelmini mi hanno dato un'insegnante che prima faceva altro. Ero molto tentata dal fare ricorso al Tar, ma non l'ho fatto, e solo per un motivo: l'insegnante si sta preparando in autonomia, sta studiando, ha un bel legame con Giulia e quindi apprezzo molto questo suo impegno. Ma il problema della competenza degli insegnanti c'è. Se – conclude un po' dispiaciuta - avessimo una formazione per gli insegnanti di sostegno più specializzata, cioè un maggior investimento anche da parte dello Stato, avremmo sicuramente un risparmio di tempo, energie e un aiuto alla produttività per questi bambini».

Quello dell''insegnante unico' è un problema di cui parla anche Martina, da 17 anni insegnante di sostegno in una scuola superiore di secondo grado siciliana. «Qualche settimana fa ho letto a scuola una circolare (relativa alla riforma Gelmini, nda): 'corsi di formazione per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno destinati al personale docente in esubero, istituiti con D.D. n.7 del 16 aprile 2012'. Questo – spiega Martina - conferma l'idea che il sostegno sia il 'refugium peccatorum' dell'istruzione: già le ore sono poche, in più se fai fare il sostegno a chi non ha le competenze è la fine per questi ragazzi».

In sostanza, con questa circolare, il Miur vuole dare la possibilità agli insegnanti di ruolo che stanno perdendo il posto di lavoro in seguito alla 'graduatoria unica' prevista dalla Gelmini, di 'riciclarsi' come insegnanti di sostegno facendo un corso di qualche ora (corrispondenti a 20 crediti formativi universitari). Inutile sottolineare che poche ore di formazione difficilmente possono fornire una preparazione adeguata alla gestione e all'insegnamento di un ragazzo con disabilità. Ma la formazione dell'insegnante di sostegno rivela almeno un altro paio di lati oscuri. Innanzitutto, essa è uniforme indipendentemente dalla vastissima varietà di disabilità con cui ogni anno un docente entra in contatto.

«È inutile girarci attorno, la nostra è una formazione uniforme che prescinde dalla disabilità con cui lavoriamo», dice Alessandra, che ha frequentato la scuola ortofrenica ad Urbino che prevede solo tre rami di specializzazione: sordi, ciechi e psicomotori, una categoria nella quale rientrano tutte le disabilità a parte l'assenza di udito e la cecità. Secondo Alessandra, «il problema è che quando noi presentiamo il Pei (piano educativo individuale, ndr) e lo facciamo partendo dalla disabilità del bambino, la maggior parte delle volte siamo in difficoltà: basti pensare che quando ci dicono che il ragazzo è autistico, ad esempio, davanti a noi si spalanca un mondo di perplessità. Non sappiamo mai cosa voglia dire, perché è uno spettro talmente ampio che fino a Natale, spesso, stiamo lì e guardiamo cosa fa il ragazzo, come si comporta. Il fatto è che tecnicamente non siamo preparati».

E qui si arriva al secondo lato oscuro, cioè la formazione continua e l'aggiornamento professionale specifico che è totalmente assente. Il Miur infatti non prevede alcun obbligo di formazione continua per gli insegnanti di sostegno e spesso quelli che vengono fatti sono organizzati al di fuori dell'orario di lavoro, magari nel week-end, e da associazioni private. Per questo gli insegnanti raramente li frequentano, anche perché nella maggior parte dei casi il costo è totalmente a carico loro. Alessandra ad esempio ha frequentato alcuni corsi extra scolastici di formazione, a Firenze ma, come lei stessa ammette, non ne ha mai avuto un beneficio professionale, né le è mai sembrato che fossero corsi particolarmente di alto livello. Stessa cosa per Martina, che ha scelto, come molte altre colleghe, la strada del 'fare da sé': volontà, studio e tanta pazienza per seguire sviluppi scientifici spesso complessi.

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Tornando all'autismo, Alessandra racconta di quante difficoltà si abbiano con ragazzi affetti da questa patologia: «dal momento che la nostra formazione è generica, quando abbiamo a che fare con ragazzi che rientrano nello 'spettro dell'autismo', devi riprendere in mano tutto l'aggiornamento psicologico e scientifico che tratta di questa malattia. La medicina progredisce sempre, ma noi non siamo preparati. Quando da studentessa in formazione chiedevo 'se mi capita un bambino autistico (o down, o qualsiasi altra disabilità), cosa devo fare?', non ho mai ricevuto risposta, perché la didattica è una cosa ma poi la pratica un'altra. Non c'è pratica per noi. Tu non lo sai cosa devi fare. E quindi dopo tanti anni di lavoro ho adottato una mia tecnica: il primo mese lo passo ad osservare il ragazzo, poi intervengo». Il fatto è che i ragazzi disabili sono spesso nelle mani di chi passa con loro le ore più formative e importanti della vita. Con gli insegnanti si instaura spesso un rapporto intimo, tanto che per alcuni di loro diventa una seconda mamma. Eppure questi docenti sono completamente lasciati a sé stessi, e di conseguenza anche i ragazzi con le loro famiglie. «Siamo arrivati al punto che la scuola italiana va avanti perché ci sono gli insegnanti che ogni mattina si alzano e vanno al lavoro: la scuola non la fanno i dirigenti, ma gli insegnanti che sono coscienziosi», commenta amareggiata Alessandra e viene da pensare che abbia ragione. Perché se un giorno all'intera classe degli insegnanti di sostegno dovesse venire meno la volontà e la passione per il lavoro che fanno, come farebbero questi ragazzi? È mai possibile che uno Stato non voglia investire nella formazione di cui si occupa dei soggetti più deboli che lo compongono? E soprattutto, perché?

Di Chiara Baldi
Inchiesta dell'Espresso
http://espresso.repubblica.it/inchieste/2013/11/14/news/l-alunno-disabile-nella-scuola-italiana-e-solo-un-numero-1.141178