Chi appartiene alla mia generazione, quella nata negli anni '80, arrivata alla soglia dell'università insieme alla riforma del 3+2, impegnata ad accumulare crediti formativi frammentati in una cinquantina di esami, dopo due tesi, tirocini, esperienze lavorative stagionali e sottopagate che nulla o poco avevano a che fare con il percorso di studio scelto, crede ancora nel miraggio dell'insegnamento è perché in realtà è mosso da un'intima vocazione. Perché quando vedi le facce disgustate di chi ascolta l'excursus dell'aspirante docente, probabilmente già perso in mezzo alle sigle TFA, PAS, graduatorie, punteggi da aggiornare, quando torni a casa e apprendi di dover fare i conti con una nuova riforma, con "La buona scuola" che da una parte preclude i nuovi inserimenti in III fascia e dall'altra annaspa nel trovare validi percorsi di abilitazione, e nonostante ciò ti rimetti a studiare, immaginando il momento in cui estrapolerai da quegli stessi argomenti spunti di riflessione e confronto in una classe di ragazzini probabilmente svogliati e indifferenti, questo è il segnale di una viva predisposizione verso il mestiere del docente.
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Il ruolo dell'insegnante è carico di responsabilità qualunque sia il grado interessato: dalle scuole primarie, quando scriccioli di sei anni si apprestano ad imparare i primi meccanismi di studio, alle superiori, dove plotoni di adolescenti si muovono tra i corridoi degli istituti scolastici fieri di condividere un nuovo spazio di vita ma alla disperata ricerca di una guida. Il motivo per cui voglio diventare un insegnante è legato alla mia esperienza di studente e all'esempio, negativo e positivo, che ho ricevuto dai miei professori.
Molti di questi “impegnati” a riempire le ore di lezione con chiacchiere inconsistenti che non avevano altro scopo se non quello di affermare personali e sterili punti di vista, come a voler plasmare i propri uditori; ma altri guidati da una passione sconfinata, unita ad una giusta dose di severità ed empatia e verso i quali nutro un debito di riconoscenza.
E per fortuna è di questi ultimi che ho impresso dei ricordi indelebili, che mi accompagnano ancora oggi: su tutti prevale quello di una prof. minuta, che ogni giorno entrava in classe carica di libri, che poi disponeva sulla cattedra quasi come a ricreare la vetrina invitante di una libreria, con l'entusiasmo di trasmettere il suo sapere, che sapeva modulare giudizi a volte pungenti ma costruttivi e che solo a posteriori mi resi conto di quanto fossero dettati dalla volontà di scuoterci dal torpore della nostra adolescenza, dal tentativo di incanalare quell'energia dirompente lasciata fluire incontrollata, in preda agli ormoni, alle mode e al giudizio altrui, nella giusta direzione verso la costruzione di noi stessi, verso la definizione di un'identità come adulto.
Chi insegna deve per forza amare il prossimo, perché i suoi sforzi sono rivolti verso l'altro essere umano, bambino, adolescente o adulto che sia. L'insegnamento come lo intendo io va di pari passo con il fornire nuove chiavi di lettura e di intepretazione del mondo, aprire nuovi orizzonti, stimolare l'immaginazione e la capacità di pensiero autonomo di ogni studente, anche del più pigro. Probabilmente molti insegnanti o aspiranti tali, scoraggiati dalla grave condizione di precarietà che li attanaglia oggi, alle prese con classi sovraffollate, odiosa burocrazia e stipendi inadeguati, reputerebbero questi miei pensieri pura utopia, ma io voglio ancora credere che alla base di uno dei lavori più appassionanti che esista regnino ancora questi principi.